C’era un tempo in cui l’odiare e l’amare una donna alla fine di una passione, per un uomo, erano sentimenti contrastanti che provocavano tormento e in cui, come antidoto alla separazione, l’uomo non più corrisposto proponeva alla amata di darle cento e mille baci. Oggi non hanno lo stesso genere di crucci gli oltre cento uomini che, ogni anno in Italia, reagiscono davanti alle medesime prospettive massacrando e uccidendo la “propria donna”, intendendola nel senso letterale del temine, di loro proprietà, rendendola vittima di femminicidio.

I dati sul femminicidio

I dati diffusi dall’ISTAT sulle vittime di femminicidio, che illustrano le tendenze degli omicidi dal 1992 al 2020, vedono, a fronte di una diminuzione degli omicidi di uomini, le uccisioni di donne invariate o in aumento. Andando più nel dettaglio con i dati del Viminale, da inizio anno sono stati registrati almeno 173 omicidi, con 62 vittime donne. Le vittime maschili per mano di partner variano negli ultimi anni tra lo 0% e il 9%, mentre almeno il 90% dei femminicidi avviene per mano di un compagno o di un ex. Più del 70% degli omicidi in ambito domestico in Italia riguarda donne. Gli uomini uccisi muoiono prevalentemente per violenza legata alla criminalità, mentre le donne sono quasi totalmente uccise da uomini in ambito familiare o affettivo. 

L’odio di genere, in Italia, risulta essere radicalizzato anche sui social, in base ai dati diffusi dall’Osservatorio Italiano sui Diritti monitorato annualmente da quattro prestigiose Università Italiane. Le donne risultano essere costantemente la categoria più colpita: nel 2022 sono al primo posto (43%), seguite dalle persone con disabilità (34%), persone omossessuali (8,7%), migranti (7,3%), ebrei (6,5%), e islamici (0,1%). Anche negli anni precedenti, le donne mantengono lo scettro delle principali destinatarie d’odio online, con percentuali vicine sempre a quasi la metà delle manifestazioni, mentre le altre categorie alternano le loro posizioni. Questi dati sono allarmanti e denotano un grave problema di tipo culturale, sociale e ormai sistemico, sul quale non esistono ancora soluzioni efficaci. I femminicidi rappresentano, peraltro, la punta dell’iceberg di una serie di crimini legati alla violenza di genere, ai quali dobbiamo aggiungere gli stupri, i maltrattamenti, la discriminazione generalizzata nei contesti sociali e lavorativi.

Si è detto molto su questo tema, soprattutto questa estate in seguito ad una serie preoccupante di spregevoli eventi violenti sulle donne, di stupri di gruppo, a volte anche su minorenni, e stupisce notare come il clamore del momento parli sempre degli stessi argomenti, a volte tra loro contrastanti: di leggi già esistenti in Italia che occorrerebbe solo applicare, di introdurre la castrazione chimica, di azioni formative quasi sempre rivolte alle stesse donne, di raccomandazioni alle donne di limitare la propria libertà non ubriacandosi o vestendosi in determinati modi, di predisposizione di centri di accoglienza e di numeri rosa. 

Come contrastare il fenomeno 

In realtà, un serio approccio per contrastare questa piaga dovrebbe combinare tre aspetti, già indicati dalla Convenzione di Istanbul: quello della prevenzione, incentrata, innanzitutto, su un cambiamento culturale negli uomini e nella società, poi quello della protezione e dell’assistenza alle vittime e infine quello della adeguata persecuzione legale e penale dei colpevoli. La prevenzione deve passare innanzitutto dall’affrontare gli aspetti culturali e educativi, oltre che di inclusione. Sono ormai consolidate le teorie che ascrivono ai crimini di genere un’origine connessa strettamente al comportamento sessuale maschile, il quale, a differenza che negli animali, dipende non solo da impulsi istintivi, ma anche sociali e culturali.

La violenza di genere, in tutte le sue varianti, è strettamente legata all’egemonia di una visione sociale sessista, che insinua nell’uomo l’idea di poter esercitare autorità sulla donna, non considerandola al suo stesso livello come essere umano libero e autonomo, ma riducendola a mera materia di possesso. Da questi presupposti derivano perciò fenomeni quali l’oggettivazione, ovvero la deumanizzazione delle donne che le riduce a corpi utilizzabili a seconda delle necessità, a oggetti dei quali ci si può servire o, banalmente, sbarazzare quando non servono più. Altro fenomeno legato sempre alle stesse storture culturali è quello della vittimizzazione secondaria delle oppresse. Le raccomandazioni sull’abbigliamento, la morbosa analisi dei costumi sessuali delle vittime e del loro comportamento libero, sono spesso additati come “provocazioni” che in qualche modo giustificano la violenza subita. La manifestazione di libertà della donna, espressa anche dal modo di vestirsi o di comportarsi, secondo questo modo di pensare può essere punita, perché non aderisce alle forme dei ruoli socialmente costruiti che determinano in maniera asimmetrica cosa è appropriato per le donne e cosa lo è per gli uomini. Serve un cambio di rotta, uno switch culturale.

La vittima, perciò, è vittima due volte: la prima perché ha subito la violenza; la seconda perché è addirittura colpevole di avere trasgredito a quanto ci si aspetta dal ruolo attribuitole, manifestandosi “provocante”, “disinibita”, “poco di buono”, “puttana”. Il disonore generato dalla vittimizzazione secondaria, spesso enfatizzata addirittura nei tribunali, da certe forme di giornalismo, dai social, da certo pensare comune, induce moltissime donne a non denunciare o a pensare molto a lungo prima di trovare il coraggio di farlo anche dopo gli stupri. Secondo la Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, ben il 63% delle donne uccise non aveva mai denunciato le violenze subite.

La normativa italiana in materia di femminicidio

Dal punto di vista normativo, che deve affrontare l’aspetto persecutorio, è vero che negli anni Settanta la Corte Costituzionale e il legislatore italiano iniziarono ad intervenire su pene più adeguate per i crimini legati alla violenza di genere. 

Ma, a parte alcune ulteriori previsioni legislative tardivamente introdotte in Italia in anni più recenti (sullo stalking, ad esempio), e nonostante l’adesione al trattato di Istanbul, poco è stato fatto dal punto di vista normativo e repressivo in Italia rispetto ad altri paesi del “primo mondo”. Nel nostro paese, infatti, non esiste né la fattispecie criminosa del femminicidio (come in molti paesi del Sud America), né l’aggravante dell’odio di genere nel caso di uccisioni di donne, come negli Stati Uniti e in altri paesi Europei. I crimini di genere sono determinati da deformazioni culturali. L’introduzione nel nostro ordinamento del genere tra le aggravanti di odio, già presenti per il razzismo etnico, nazionale e religioso, potrebbe essere uno strumento per far comprendere una volta per tutte che la violenza sulle donne non è una forma di comportamento dell’uomo legittimata dai ruoli socialmente costruiti per i due sessi, ma è una grave violazione dei diritti umani. 

Una prevenzione culturale che coinvolga attivamente anche gli uomini, e una la legislazione in ottica preventiva, sono le azioni più pressanti da attuare, per uscire dalla banalizzazione e dalla normalizzazione del male a cui sembra siamo arrivati.

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